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di Sergio Palumbo
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In Sicilia i normanni portarono le leggende del ciclo bretone
e fiorirono così singolari varianti sul mitico eroe


Artù trovò dimora nell'Etna


Secondo una poesia medievale cavalieri inglesi
vennero a cercarlo sull'isola



Gazzetta del Sud - 5 Ottobre 2008 - pag. 20

«Cavalieri siamo di Bretagna / ke vegnamo de la montagna / ke ll’omo apella Mongibello. / Assai vi semo stati ad ostello / per apparare ad invenire / la veritade di nostro sire, / lo re Artù k’avemo perduto».

Questa è la strofa di una poesia medievale contenuta in un duecentesco codice magliabechiano scritta da uno strano pellegrino-menestrello, noto come Gatto Lupesco, che si sarebbe imbattuto lungo il cammino in due misteriosi viandanti inglesi, forse, chissà, cavalieri della famosa Tavola Rotonda, giunti fin in Sicilia per cercare tra le lave e i boschi dell’Etna non il Santo Graal ma lo scomparso Artù, il mitico eroe bretone che divenne re estraendo la fatata spada Excalibur dalla roccia, considerato il più nobile e il più cavalleresco di tutti i guerrieri.

Artù, come si sa, è una figura immaginaria legata al mago Merlino, suo protettore, e alla sorella Morgana, la fata da cui prende nome il raro fenomeno ottico nello Stretto di Messina. È sposato con Ginevra e vive felice in una fiabesca corte a Camelot, circondato dai cavalieri della Tavola Rotonda. Quando Artù scopre che la regina ama in realtà Lancillotto scoppia una sanguinosa guerra fratricida che porterà al dissolvimento del suo regno. Si suppone, tuttavia, che storicamente un Artù sia esistito davvero, forse si trattava di un condottiero romano o un celta romanizzato vissuto tra la fine del V e l’inizio del VI secolo.
Stando a una leggenda medievale, non popolare ma ancor oggi nota in Sicilia, il viaggio dei due cavalieri inglesi, anche se fosse stato inventato dal sornione Gatto Lupesco, nella realtà avrebbe comunque avuto una sua giustificazione. Artù, infatti, dopo tante memorabili gesta, avrebbe fatto dell’Etna la sua Avalon per vivere serenamente in quell’Isola Fortunata descritta come un piccolo paradiso in poemi di chierici e canzoni di giullari.
Secondo l’antica tradizione bretone raccolta da Goffredo di Monmouth, la fata Morgana trasportò Artù mortalmente ferito dopo un duello con il malvagio Mordred, nell’isola di Avalon allo scopo di curare con un incantesimo l’eroe. Sul nome e sull’ubicazione di Avalon sono fiorite le interpretazioni più svariate e molto ha giocato la fantasia popolare. Uno dei luoghi identificati come l’isola favolosa è appunto l’Etna secondo quanto racconta anche Maria Corti nel suo “Catasto magico” (1999), riprendendo una tradizione già radicata nel Medioevo e che affiora in poco noti romanzi francesi e arturiani come, per esempio, “Iaufre”, “Floriant et Florete” e “Loquifier”.
A narrare la straordinaria storia di Artù nell’Etna non sono siciliani del tempo bensì due coevi scrittori nordici. Il primo è l’inglese Gervasio di Tilbury che venne in Sicilia alla corte normanna di Gugliemo II il Buono, prima quindi del 1190, e che parla negli “Otia imperialia” della sicula leggenda arturiana. Il secondo scrittore è invece il tedesco Cesario di Heisterbach che, a distanza di pochi anni da Gervasio, racconta nel suo “Dialogus miraculorum” la stessa leggenda sia pure con qualche variante magica e un’atmosfera più cupa.
I due, che dissero di aver appreso la leggenda dalla gente del luogo, non ebbero alcun rapporto fra loro e Cesario non prese neanche spunto da Gervasio a riprova che doveva pur esserci qualcosa di vero sul fondo. In sostanza, questa appendice mediterranea del ciclo arturiano, una variante esotica rispetto alle radici nordiche della materia bretone, non poteva essere frutto di pura fantasia. Ecco come Gervasio di Tilbury racconta la leggenda in cui Artù fece dell’Etna la propria dimora, anche se qui «la tradizione sembra abbia smarrito – avverte Arturo Graf – ogni ricordo dell’isola di Avalon».
«In Sicilia è il monte Etna, ardente d’incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania (…) Volgarmente quel dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Arturo. Avvenne un giorno che un cavallo del vescovo di Catania, colto, per essere troppo ben pasciuto, da un subitaneo impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercatelo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. Per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d’ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Arturo adagiato sopra un letto regale».
«Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perché lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto».
Col tempo la leggenda riportata dal Gervasio si è arricchita di nuovi particolari, di varianti che hanno finito per stravolgere l’originaria narrazione. Già la versione raccolta da Ignazio Colli nel 1938, sebbene presenti qualche comune elemento con il racconto di Gervasio, ha uno sviluppo del tutto diverso. «Artù morente si doleva che la sua spada fosse spezzata e allora fu portato dall’arcangelo san Michele sulla cima dell’Etna dove il fuoco saldò i due tronconi di Excalibur. Re Artù, soddisfatto il suo ultimo desiderio, si recò in una grotta vicina al cratere, per morirvi. Passò ivi la notte, e al mattino uno spettacolo di incomparabile bellezza si presentò ai suoi occhi: la Sicilia in fiore! Artù ne fu così preso, che dimenticò le sue ferite e pregò il Signore di farlo vivere ancora. Iddio esaudì la sua preghiera, anzi gli diede un cavallo bianco, già appartenuto al vescovo di Catania, e così re Artù passa ogni notte sulle lave dell’Etna con il suo svolazzante mantello rosso. Quando vi sono delle eruzioni, re Artù pianta nel terreno la sua spada, come se fosse una croce, e il fuoco non fa danno; ma qualche volta, quando re Artù si reca in Inghilterra a portare ai bambini inglesi i bei frutti di Sicilia, allora, se succedono eruzioni, sono guai, perché non c’è il buon re a difendere i fertili campi della zona etnea».
Arturo Graf nel suo ormai classico saggio “Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo” (1892-93) si chiede come i siciliani abbiano potuto immaginare una leggenda che, per una parte, contraddice quanto essi sapevano, o congetturavano, della natura del loro vulcano e involge, per l’altra, un mito nordico. È probabile, sostiene ancora il Graf, che questa storia sia stata immaginata da uomini venuti da fuori, i quali, mentre con l’Etna avevano poca pratica, potevano recar seco il ricordo di quel mito nordico, o aver conoscenza di qualche variazione già introdotta nella leggenda di Artù. «Che uomini poteron essere quelli? – si chiede lo studioso – non gli arabi, certo: dunque i normanni».
In effetti Santi Correnti nel suo volume “Leggende di Sicilia” spiega che il «periodo normanno della storia isolana (1060-1194) ebbe anche il merito di iniziare la tradizionale amicizia e gli scambi culturali tra la Sicilia e l’Inghilterra». È oltretutto coeva, da parte dei normanni, la conquista di entrambi le terre sottratte rispettivamente ai saraceni e ai sassoni: lo sbarco di Ruggero d’Altavilla a Messina avvenne nel 1060, mentre la battaglia di Hastings, che sancì la vittoria di Guglielmo il Conquistatore, risale al 1066.
Con l’arrivo dei normanni in Sicilia, al cospicuo patrimonio mitologico e fiabesco isolano, per buona parte già costituitosi a partire dall’età classica, nel periodo medievale ai filoni cristiano e bizantino-arabo si aggiunse la “materia” franco-inglese, bretone o arturiana, appunto. A tale “materia” si aggiunsero inoltre le storie riguardanti Riccardo Cuor di Leone fiorite a Messina dopo il passaggio del sovrano inglese dalla città siciliana all’epoca della terza crociata in Terrasanta.
E con la “materia” bretone, attestata non solo da Artù nell’Etna ma pure dalle leggende celtiche della fata Morgana e della città di Risa, i normanni importarono in Sicilia anche i “cantari di gesta” del cosiddetto ciclo carolingio sulle avventurose imprese di Carlo Magno e dei paladini di Francia, da cui poi nacque la pittoresca tradizione popolare dell’opera dei pupi.



Sergio Palumbo
Gazzetta del Sud - 5 Ottobre 2008




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