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di Sergio Palumbo
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Il nazismo osteggiò la musica d'avanguardia, imbavagliò i compositori, cacciò gli ebrei da orchestre e teatri.


L'arte degenerata del Führer


Ma il Terzo Reich poté contare su Richard Strauss,
Furtwängler e Karajan


Gazzetta del Sud - 12 aprile 2008 - pag. 33

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Il centenario della nascita del famoso direttore d'orchestra austriaco Herbert von Karajan (1908-1989), che cade proprio in questo mese, offre l'occasione per rivisitare una pagina nera della cultura tedesca, quella in cui il nazismo mise al bando la cosiddetta "arte degenerata" e ripulì l'ariana Germania razzista da musicisti ebrei e bolscevichi. A differenza del collega Furtwängler, che pagò con la solitudine e il declino artistico nel secondo dopoguerra per il suo passato filonazista, Karajan fu invece presto riabilitato e grazie pure al carisma personale, al talento interpretativo e alla sua abilità manageriale riuscì a depurare la propria immagine da ombre e sospetti.
Il giovane direttore salisburghese, per quanto dotato, ebbe una carriera folgorante in virtù anche dell'adesione al nazismo che avvenne nel 1933 quando fu ratificato ufficialmente il suo ingresso nel nazionalsocialismo. Due anni più tardi Karajan presentò addirittura formale domanda per avere la tessera di partito che mantenne fino al 1945 e diventò così, guarda caso, il più giovane "Generalmusikdirektor" della Germania.

La sua esecuzione del wagneriano "Tristan und Isolde" fu un trionfo nel 1938 e ciò gli garantì una collaborazione con la Deutsche Grammophon, casa discografica a cui sarebbe rimasto legato per tutta la vita. Nel 1942, tuttavia, fece un passo falso sposando Anita Guetermann, di chiare origini ebraiche, e da quel momento perse tutti i suoi appoggi politici.A guerra finita Karajan subì l'allontanamento forzato dalla scena musicale e interpreti ebrei come Isaac Stern e Itzhak Perlman rifiutarono di esibirsi in concerto con lui.

Bisognò aspettare il 1946 per vedere il maestro sul podio per il suo primo concerto nella capitale austriaca con i Wiener Philarmoniker, ma poi le autorità d'occupazione sovietiche gli vietarono di prendere parte ad altre pubbliche manifestazioni musicali in qualità di direttore d'orchestra. Già l'anno seguente il veto però cadde e il musicista poté così riprendere la sua brillante attività di direttore.
Da allora l'ascesa di Karajan fu inarrestabile e l'ingombrante compromissione col nazismo non costituì più un ostacolo al suo successo. Certo, a carico del direttore d'orchestra austriaco fu sempre fatta pesare la connivenza col regime hitleriano ma ad assolverlo ci pensò persino l'ex cancelliere socialdemocratico tedesco Helmut Schimdt, suo grande amico e ammiratore. «Naturalmente Karajan non è mai stato un nazista – ebbe a dire Schimdt –, come tanti tedeschi e austriaci, allora era solo un gregario». Eppure, facendo un bilancio sullo stato della musica tedesca sotto il pugno di ferro nazista, diventa difficile affrancare del tutto da una qualche responsabilità etica "gregari" come Karajan.

Basti pensare che costoro condivisero o accettarono passivamente l'aggressiva politica culturale oscurantista di un regime che decretò la fine prematura di una stagione artistica tra le più fervide dell'avanguardia europea.Sulla scia dei movimenti "Die Brücke" (Il Ponte) e "Der blaue Reiter" (Il cavaliere azzurro), nella Germania post-guglielmina del primo dopoguerra, al tempo della Repubblica di Weimar, si sviluppò la scuola espressionista che portò alle estreme conseguenze un esasperato soggettivismo e le cui correnti ebbero riflessi internazionali in pittura, teatro, letteratura, cinema, musica, architettura, teatro. Berlino divenne la nuova capitale dell'avanguardia culturale in area germanica. Stuckenschmidt, nel suo saggio "La musica moderna", spiega eloquentemente lo straordinario rinnovamento operato dalla produzione creativa mitteleuropea nel primo Novecento. Ma con l'avvento della dittatura, che impose un ritorno alla "sana" cultura del passato per riscoprire la "purezza" tedesca, a partire dal 1933 qualsiasi novità rivoluzionaria venne soffocata o rifiutata.

Dunque, limitandosi all'àmbito musicale, dodecafonia, atonalismo, jazz, canzoni da cabaret non potevano che rientrare nella famigerata categoria dell'arte degenerata cui «il razzismo hitleriano – sottolinea Rubens Tedeschi – attribuiva stigmate ebraiche». Con il Führer al potere non c'era più posto neanche per l'arte antiborghese esemplarmente rappresentata da "L'opera da tre soldi" ("Die Dreigroschenoper") di Brecht-Weill o dai feroci disegni di Grosz. Il nazismo rispolverò invece antichi miti letterari e musicali: l'epica nibelungica, misticheggianti poemi medievali e soprattutto l'opera di Richard Wagner, eletto a padre spirituale della nuova Germania.
«Chiunque voglia conoscere la Germania nazionalsocialista deve conoscere Wagner» proclamò Hitler, che fece di Bayreuth il centro musicale per eccellenza del Terzo Reich. Goebbels, ministro della propaganda e pianificatore della politica culturale del nazismo, ai compositori tedeschi indicava come modello Wagner e chiedeva altresì di scrivere non "Gebrauschsmusik" (musica d'uso) alla Weill bensì rutilanti marce militari e magniloquenti inni patriottici per parate fastose e adunanze oceaniche allo scopo di alimentare l'immagine della grandezza della nazione teutonica nella gloriosa era del Führer. In un paio d'anni il nazismo fece piazza pulita della "feccia giudaica" nelle orchestre, nei teatri, nei conservatori.

E non ci fu scampo neppure per un maestro ottocentesco come Mendelssohn colpevole solo di essere ebreo: le sue musiche vennero messe al bando, le sue statue abbattute o nascoste. Le composizioni di Paul Hindemith furono proibite nel 1935; Stravinsky e Bartók, sebbene non proibiti ufficialmente, venivano eseguiti poco e malvolentieri. E quando nel 1938 l'Austria fu invasa dai tedeschi e annessa al Terzo Reich le epurazioni colpirono pure la Filarmonica di Vienna e la casa editrice Universal, celebre per le sue pubblicazioni di Schönberg. Il nome e l'immagine di Gustav Mahler, grande compositore e direttore d'orchestra di origini ebraiche, non dovevano più comparire e una strada a lui intitolata venne ribattezzata via dei Maestri Cantori. I compositori della rinomata "Scuola di Vienna", che pure avevano aperto nuovi orizzonti alla musica moderna, furono censurati e ridotti al silenzio. Insomma, per chi non si allineava alle direttive del partito nazionalsocialista l'unica alternativa era la fuga anche per evitare il campo di concentramento e così la Germania vide una massiccia diaspora intellettuale.

Artisti e musicisti tedeschi, ebrei e non ebrei, preferirono rifugiarsi all'estero: da Paul Hindemith a Kurt Weill, da Ernst Krenek a Hanns Eisler, da Rudolf Serkin a Bruno Walter, da Marlene Dietrich a Lotte Lehman, da Otto Klemperer a Erich Kleiber, a Bertolt Brecht. Emigrarono anche pittori, architetti e scrittori: da Thomas Mann a Robert Musil, da Stefan Zweig a Walter Gropius, da George Grosz a Vasilij Kandinskij, da Max Reinhardt a Edmund Husserl, da Walter Benjamin ai filosofi della Scuola di Francoforte. A Vienna Alban Berg morì di stenti nel 1935, Anton Webern non partì ma il nazismo gli fece terra bruciata attorno e rimase completamente isolato. Invece Arnold Schönberg, l'inventore della tecnica dodecafonica, espatriò e non rivide più il suo paese.

Nel contempo, interpreti di fama internazionale come il violoncellista Pablo Casals o il direttore d'orchestra Arturo Toscanini boicottarono ogni attività concertistica in Germania, denunciando pubblicamente l'antisemitismo nazista. Alcuni compositori di valore non andarono via dalla Germania, come Hartmann, Blacher, Fortner, von Einem, ma essi, per motivi ideologici o per dignità professionale, si autoemarginarono dalla vita musicale del regime. Al servizio del Führer, oltre al rampante Herbert von Karajan, si posero invece vecchi tromboni come Hans Pfitzner e Paul Graener o giovani promesse come Carl Orff, i cui affascinanti "Carmina Burana" vennero adottati, in mancanza di meglio, come «opera tedesca» per il loro gusto medieval-popolare. Orff divenne il massimo esponente, con Werner Egk, del cosiddetto "gruppo di Francoforte" che cercò, con mediocri risultati, di «fornire un'alternativa nazionalsocialista alla musica "degenerata" degli avanguardisti come a quella puramente tradizionale» (Gentilucci).

Ma gli stessi "Carmina Burana" si rivelarono un tributo più esteriore che concreto ai parametri culturali nazisti. Gli unici artisti di gran nome che tentarono una collaborazione con il nazismo furono il tardoromantico compositore Richard Strauss, il più rappresentativo musicista tedesco dell'epoca, ormai settantenne, e il prestigioso direttore d'orchestra Wilhelm Furtwängler. In entrambi i casi si trattò di un rapporto difficile col Terzo Reich fra ambiguità e contraddizioni.

Nel 1947 Strauss venne assolto dal tribunale di Monaco dall'accusa di collaborazionismo. Anche Furtwängler subì un processo di denazificazione non senza ripercussioni morali e professionali. In realtà, come poi confessò lo scrittore Thomas Mann, «non era permesso, non era possibile, fare della cultura in Germania, mentre intorno accadeva ciò che ora sappiamo. Significava nascondere la depravazione, adornare il crimine». Alla fin fine, come sostiene Rubens Tedeschi, «i dodici anni del Terzo Reich dal punto di vista della creazione artistica furono sterili: forse l'unico periodo di silenzio in un paese tanto ricco di tradizioni musicali». Le conseguenze dell'autarchia culturale voluta dal regime furono incalcolabili e l'impoverimento intellettuale causato dal Terzo Reich lasciò un vuoto incolmabile.

«Il 1945, l'anno della sconfitta e del crollo del nazismo, fu, sul piano politico, esistenziale e culturale – osserva Andrea Lanza –, un vero e proprio "anno zero" per la Germania». Nel secondo dopoguerra la nazione tedesca rinata dalle ceneri del nazismo fu costretta non solo a colmare il ritardo culturale accumulato rispetto al resto d'Europa ma a recuperare anche quanto la dittatura hitleriana aveva seppellito o sottratto in poco più di un decennio.

Sergio Palumbo
Gazzetta del Sud - 12 aprile 2008




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